Sogno di primavera in Iran

Da più di cento giorni si è alzato forte il grido di uno dei più coraggiosi e importanti movimenti per l’affermazione dei diritti del nostro tempo. Sarà il 2023 l’anno in cui una nuova primavera in Iran riuscirà ad aprirsi la strada tra la morte e la repressione, la sola via attraverso la quale il regime dei Mullah sembra convinto di poter conservare il proprio potere? Malgrado lo stillicidio di esecuzioni, le centinaia di persone assassinate, le migliaia di arresti, le torture e gli stupri che avvengono nelle carceri, la grande protesta cominciata dalle donne in Iran si mostra determinata a sfidare ancora il regime in modo collettivo e con azioni individuali. Si tratta di un enorme e molto variegato fiume di persone che non ne può più di vivere nel modo che gli viene imposto, sa quello che vuole e giura che questa volta non si arrenderà. D’altra parte, nonostante il terrore di oltre 40 anni di Repubblica Islamica, quella che molti hanno chiamato la rivoluzione cominciata nel 2022 potrebbe concludere un lungo ciclo che attraversa i decenni: la storia scritta in questo territorio ha una tradizione di mobilitazioni popolari che poche altre popolazioni nel mondo possono vantare
l 3 gennaio è stata una data importante per il regime iraniano, si commemorava l’anniversario della morte di Qasem Soleimani, figura militare chiave del Paese, assassinato dall’esercito statunitense all’aeroporto di Baghdad. Nel corso del 2020, poi, a Soleimani è stato reso onore come a un grande e amato leader. Nel corso del 2022, però, la BBC ha mostrato immagini di quello stesso autorevole simbolo dei Guardiani della Rivoluzione bruciate in diverse parti del Paese. La popolazione iraniana è stufa del regime.
Un giorno prima dell’anniversario dell’assassinio di Soleimani, lunedì 2 gennaio, il volto di un adolescente campeggiava sui notiziari. Era l’ennesimo annuncio di esecuzione, nel mezzo dello stillicidio di condanne capitali che si stanno susseguendo, mesi dopo l’inizio di quella che oggi viene già chiamata la rivoluzione del 2022. Mehdi Mohammadifard, a soli 18 anni, era stato condannato a morte per aver offeso Dio e perché “lavorava per il nemico”. Queste accuse e denunce pesavano anche nei confronti di un altro giovane condannato a morte di cui si è saputo lo stesso giorno: Mohammad Boroghani. Secondo l’organizzazione Iranian Human Rights (IHR), circa 100 persone sono a rischio di esecuzione, sono già state condannate a morte o devono rispondere di accuse che prevedono la pena capitale. Il regime iraniano ha iniziato il 2023 così come ha finito il 2022, rispondendo alla volontà di non redimersi di gran parte della popolazione con la repressione e la morte.
La rivoluzione, iniziata a settembre in risposta all’assassinio della giovane Jina Masha Amini, continua nelle strade nonostante la repressione. Il 31 dicembre è stato indetto un grande corteo che doveva partire da vari punti della capitale, per confluire nel Gran Bazar, spazio di grande significato simbolico che ha avuto un ruolo di primo piano anche in precedenti rivoluzioni. Da quella avvenuta all’inizio del Novecento, a quella che ha preceduto l’istituzione della Repubblica islamica nel 1979, quando i lavoratori in sciopero vennero sostenuti dai commercianti. Quella volta, l’unione di più settori della società permise, in un Iran a vocazione rivoluzionaria, un cambio di regime che fu però cooptato dal leader religioso Ruhollah Khomeini e dai suoi seguaci.
Più di 40 anni dopo, il popolo iraniano sfida la Repubblica islamica, in una ribellione iniziata dalle donne che si è estesa a tutti i corpi sociali, indipendentemente dal genere, dall’etnia, dalla classe, o dall’estrazione urbana o rurale dei soggetti coinvolti. Ecco perché la repressione non ha avuto alcuna misura né distinzione. Secondo l’Agenzia di notizie degli Human Rights Activists, a inizio gennaio sono già stati uccisi più di 500 manifestanti, tra i quali 70 bambini. L’agenzia rileva anche i 19.200 arresti, 681 dei quali di studenti. Ebrahim Raisi (presidente dell’Iran dall’agosto 2021, ndt)— famoso per aver annientato centinaia di prigionieri politici alla fine degli anni Ottanta — usa la stessa ricetta: seminare il terrore.
Indottrinare con la paura
L’Iran è uno dei Paesi al mondo dove il divario di genere è più profondo, una disuguaglianza che si dispiega però su uno sfondo contraddittorio: il 60% degli studenti universitari sono donne, eppure le donne occupano solo il 15% del mercato del lavoro. Il velo è dunque manifestazione esteriore di una discriminazione molto profonda, e indica, come ha spiegato il deputato Hossein Jalali – membro della commissione cultura del parlamento – la bandiera della Repubblica islamica. “Chi rifiuta di indossarlo dovrà pagare un prezzo alto”, ha minacciato annunciando nuove misure punitive che includevano il blocco dei contocorrenti bancari.
Stufe di essere lo spazio in cui il regime mostra il suo potere e la sua capacità di imporsi e fare del male, “le donne si sono ribellate, e da allora – con il sostegno degli uomini – sono scese in strada a protestare. Fino ad ora, il prezzo da pagare sono stati la detenzione politica, la tortura, gli stupri, le condanne a morte e le impiccagioni”, riassume lo zio di Toomaj Salehi, il rapper arrestato a fine novembre e da allora in attesa di esecuzione. Lo zio risponde a El Salto dalla Germania, dove risiede da molti anni. È divorato dall’angoscia per la sorte di questo giovane rapper che denuncia da molto tempo le vergogne del regime, ben prima di quest’ultima fase rivoluzionaria. “Toomaj ha suscitato molto interesse perché racconta molto apertamente i problemi che esistono nella società (anche se non se ne può parlare). Il coraggio che c’è nei suoi testi è ciò che le persone in Iran, specialmente i giovani, hanno bisogno di sentire”.
I giovani nati dopo la rivoluzione islamica sono stati indicati, insieme alle donne, come i grandi protagonisti delle proteste. Li si è visti scioperare nelle università e negli istituti, oppure partecipare alle marce del 31 dicembre, avanzare per le strade di Teheran, sfidando una repressione che li sta decimando. “Questi giovani vogliono decidere da soli della propria vita e di come poter vivere e non essere più oppressi e costretti a pensare come la gente faceva 1400 anni fa”, riassume lo zio di Toomaj.
L’8 dicembre l’Iran ha annunciato la prima esecuzione di un partecipante alle mobilitazioni esplose a settembre. Si trattava del giovane Mohsen Shekari, un attivista subito condannato con l’accusa di aver bloccato la strada principale di Teheran, nei primi giorni delle proteste, e di aver ferito col machete un membro delle forze paramilitari a cui il governo s’è appoggiato per combattere la rivolta. L’accusa verso Shekari, ripetuta più e più volte nelle condanne di decine di persone, è quella di moharebeh (inimicizia verso dio). Il processo che ha preceduto questa prima sentenza è stato descritto come “un processo farsa, che non ha seguito le procedure”, secondo quanto ha detto in quei giorni un attivista alla Bbc. Pochi giorni dopo sarebbe morta per impiccagione anche un’altra 23enne, Majidreza Rahnavard, anch’essa accusata di moharebeh. Non s’è ripetuta solo l’accusa, ma anche la segretezza e la mancanza di garanzie del procedimento giudiziario.
Mentre continuano ad essere emesse condanne a morte, il numero delle persone incarcerate aumenta, alcuni casi sono particolarmente rilevanti come quello del calciatore 26enne Amir Nasr-Azdani, arrestato dopo aver partecipato alle proteste lo scorso dicembre. Un mese dopo, è ancora in attesa di una sentenza che, temono in molti, porterà forse alla sua esecuzione (Azadani è stato invece poi condannato a 26 anni di carcere, ndt), stessa sosrte potrebbe toccare a decine di giornalisti, metà dei quali donne, secondo l’ organizzazione Reporters sans frontières. La preoccupazione manifestata dalla cosiddetta comunità internazionale non sembra poter fermare la strategia del regime, che da un lato fa timide promesse di cambiamento, poi puntualmente vanificate, — come avvenuto con l’annunciata abolizione della polizia morale, quella che vigila sul rispetto dei codici di abbigliamento e che ha messo fine alla vita di Amini—, dall’altro prosegue con la repressione pura e dura e la continua segnalazione di ipotetici nemici interni che sarebbero in combutta con attori esterni come Israele, Stati Uniti o Arabia Saudita.
Il progredire delle esecuzioni rende nervosa la famiglia del rapper Salehi, ma fa crescere in loro anche l’indignazione e il dolore: “Provo rabbia, rabbia, rabbia. Rabbia nei confronti del regime e dei Paesi del mondo che non vogliono ascoltare la voce del popolo e non fanno quanto sarebbe necessario per porre fine al regime in Iran. Le leggi e i regolamenti della Repubblica islamica dell’Iran vanno contro tutti i possibili diritti umani, lo abbiamo visto per 44 anni, non è mica una novità”, insiste lo zio, che qualifica il regime come terrorista, un terrorismo che funziona come una mafia e opprime 80 milioni di iraniani. “Per mantenere il potere, la loro unica possibilità è opprimere“, dice. Tornando indietro nel tempo, fino a molto prima dello scorso settembre, sottolinea che non sono mai stati in grado di tenere elezioni giuste e che è solo con la paura che cercano di governare. “Impiccano, torturano e stuprano coloro che imprigionano al fine di spaventare gli altri, per impedire loro di andar fuori a protestare. Ma la gente ora non ne può più, non ha più paura“.
“Non avete succhiato abbastanza della nostra esistenza? Ci avete resi estranei al mondo, ci avete trasformati in giocattoli di vetro. Non avete colpito abbastanza il nostro culo, non avete rubato dalle nostre tasche, non ne avete dato metà alla Cina e il resto alla Russia?”, presenta così il conto, nel brano “Torkamanchay“, il rap di Tomaj. È che, sebbene le donne abbiano iniziato la lotta con lo slogan “Donna, vita, libertà”, ripreso dalle donne curde, molti dei temi confluiscono proprio in Amini: una donna, giovane e curda; e poi la situazione economica, la mancanza di futuro, l’isolamento internazionale, la povertà… i fattori che stimolano le proteste sono molteplici.
“La gente dell’Iran ha dimostrato ancora una volta quello che vuole e che non si arrenderà ora. Vogliono porre fine al regime e hanno bisogno del sostegno internazionale per riuscirci”, insiste lo zio di Toomaj dalla Germania. Come esempio di risposta cita il suo paese di residenza, dove alcuni deputati hanno accolto prigionieri politici. Ma ritiene che sia necessario andare fino in fondo, “la cosa più importante di tutte è chiudere le ambasciate ed espellere gli ambasciatori iraniani dai Paesi poi va classificata come terrorista la Guardia rivoluzionaria islamica”, cosa che è appena avvenuta nel Regno Unito .

Il ruolo della diaspora
Le proteste si sono svolte in tutto il territorio iraniano, dalle grandi città, che hanno una maggiore tradizione rivoluzionaria, alle aree rurali che potrebbero essere più soggette all’influenza del regime islamico. Vi hanno preso parte donne, uomini e persone di ogni nazionalità — i curdi sono stati i più combattivi e, allo stesso tempo, i più duramente oppressi — una grande diaspora iraniana ha manifestato ovunque. Principalmente negli Stati Uniti, in Canada e in alcune capitali europee. Si tratta di una diaspora che, come l’opposizione al regime è stata fin dall’inizio, ha gambe molto diverse, dai monarchici ai militanti di sinistra. Comprende anche persone che invocano un intervento dall’esterno, cosa che la stessa popolazione non sembra chiedere, secondo quanto spiega lo specialista Afshin Matin-Asgari, in questo articolo per Jacobin.
“Perfino gli iraniani più reazionari sono diventati rivoluzionari, e sono inconsapevolmente tornati al significato originario di ‘rivoluzione’ come ripristino di uno status quo rovesciato”, spiega Matin-Asgari, che sottolinea come la scommessa sulla restaurazione della monarchia abbia poco futuro, perché il figlio dell’ultimo Shah ha chiarito che non si presterebbe a occupare alcun trono. I messaggi nostalgici, tuttavia, “risuonano con forza in Iran attraverso un diluvio di programmi TV satellitari finanziati principalmente dai governi degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita”.
L’elemento che li accomuna tutti è il rifiuto di un regime contro il quale la popolazione si ribella da 40 anni, ma c’è pure chi si ribellava anche prima, e non condivide certo in alcun modo la nostalgia dei tempi di uno Shah che considerava autoritario e saccheggiatore. “Io sono stato detenuto come prigioniero politico al tempo dello Shah, e ricordo che durante quel periodo abbiamo ricevuto visite di Amnesty International. Per i detenuti, e per il popolo iraniano, quelle visite crearono grande speranza e sostegno, è proprio quello che deve essere fatto oggi in Iran”, ci dice lo zio di Toomaj, che però ritiene la situazione odierna ancora peggiore di quella di un tempo e il trattamento dei prigionieri perfino più disumano.
Nell’ultimo giorno del 2022, una serie di personalità iraniane residenti all’estero ha coordinato la pubblicazione di messaggi di speranza sulle reti per affermare che il 2023 porterà un cambio di regime. La diaspora non si sente al sicuro, circolano informazioni che indicano che il regime potrebbe rapire e portare in Iran attivisti e oppositori che vivono all’estero. Al di là dei rischi personali, il trauma di vedere i propri amici e familiari in carcere, di temere per la propria vita, valica i confini: a fine dicembre Mohammad Moradi, attivista iraniano residente a Lione, si sarebbe tolto la vita per trasmettere la sua angoscia per la situazione in Iran e sensibilizzare a livello internazionale, come si evince da un video.

Una lotta che unisce
Nel suo articolo su Jacobin, Matin-Asgari propone un viaggio nella lunga storia delle mobilitazioni in Iran, da quelle che seguirono immediatamente la cacciata dello Shah, quando – nel marzo 1979 – una manifestazione per i diritti delle donne costrinse a ritardare l’applicazione dei codici di abbigliamento che Khomeini voleva imporre, all’insurrezione contro il regime, placata a malapena con la prima guerra in Iraq e un rudimentale welfare state, un’insurrezione che fu epurata proprio dall’attuale presidente ultraconservatore, passando per le mobilitazioni di fine anni ’90 che furono il preludio alla fase riformista, ovvero alla rivoluzione verde del 2009, prima di quelle che sono state considerate elezioni fraudolente e che hanno regalato una seconda vittoria al conservatore Mahmoud Ahmadinejad. E poi il ciclo di proteste cominciate nel 2017 che andrà avanti fino al 2020, dopo che, nella sua risposta all’assassinio di Suleimani, l’Iran abbattè per errore un aereo di passeggeri delle aereolinee nazionali ucraine in cui viaggivano principalmente compatrioti iraniani.
Secondo questa tesi, l’irrigidimento delle politiche morali, il continuo impoverimento delle classi subalterne, l’assenza di libertà e il degrado ecologico sono stati i fattori che hanno generato un clima di insurrezione che si è poi infiammato con l’assassinio di Amini, e che ha una natura molto stimolante. Musicisti come Toomaj sanno condensare tutte queste critiche. “L’arte ha sempre avuto un grande impatto su proteste e rivoluzioni. E ora, nel caso di Toomaj, la musica sotto forma di rap, che è sempre stata usata per criticare la società, ha avuto un ruolo importante e un impatto sulle persone”, spiega un’amica del rapper, che gestisce i suoi social network, i social network, di “chi si considera uno come gli altri”, ma consapevole che la sua visibilità comportava una responsabilità.
La società iraniana non nega questa responsabilità. Dalla squadra di calcio, che si è rifiutata di cantare l’inno nella prima partita dei Mondiali in Qatar, ai professori universitari che si sono dimessi a sostegno delle proteste, ai professionisti dei media che si fanno da parte, la rivoluzione sembra fatta sia di mobilitazioni collettive che di coraggio individuale, come bruciare l’hijab, danzare per strada, strappare a tradimento i turbanti ai religiosi. “L’Iran sta attraversando un grande cambiamento sotto forma di rivoluzione. E ci vorrà del tempo, una rivoluzione non arriva velocemente in pochi giorni o poche settimane. La gente combatte e protesta contro una mafia che pensa solo a se stessa e al suo potere”, spiega l’amica di Toomaj. La religione, sottolinea, è solo un’arma in più che usano per mantenere il potere.
Ricominciare dalla primavera della libertà
Correva l’anno 1979 e le forze sociali unite per rovesciare la tirannia dello Shah, godevano della libertà raggiunta con la partenza di un tiranno malato. Persone di sinistra, borghesi, donne, minoranze discriminate, operai che occupavano le fabbriche, contadini che prendevano il controllo dei campi… Il vuoto di potere lasciava spazio all’autogestione e alla creatività. La primavera della libertà, tuttavia, non durò a lungo. Un Khomeini, sostenuto dagli Stati Uniti, arrivava nel paese per portare ordine con l’aiuto dei religiosi. La spinta al cambiamento, la sfida e l’espulsione dello Shah univano settori molto diversi, che però avevano difficoltà a condividere un progetto di Paese e un orizzonte politico.
Quarantatre anni dopo, anche coloro che uniscono le loro voci contro Khamenei sono diversi. Nel frattempo, il potere politico si è diramato in potere economico e finanziario, e ha la complicità delle principali forze di sicurezza. D’altra parte, la generazione dei leader della rivoluzione islamica sta invecchiando e si attende un ricambio generazionale che potrebbe aprire qualche crepa. La caduta dello Shah, ricorda Matin Asgari, è stata raggiunta quando l’esercito si è schierato con l’impeachment. Mentre si scagliano contro i pacifici manifestanti nelle strade, le odierne forze di sicurezza in Iran non sembrano contemplare questo cambio di rotta. Sebbene la paura esista anche all’interno dell’esercito, sottolineano alcuni media.
La questione è che le ragioni per protestare, anche rischiando la vita, certo non mancano. Sono quelle che il cantante Shervin Hajipour ha raccolto —in una confluenza tra la musica come forma di articolazione politica e il peso delle reti nella rivoluzione— nella canzone “Baraye”, dove riprende decine di tweet in cui vengono esposte le ragioni della rivoluzione. “Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle/ Per il risveglio delle menti arrugginite/ Per la vergogna/ Per avere le tasche vuote/ Per il desiderio di una vita normale/ Per i bambini che raccolgono la spazzatura e i loro sogni/ Per questa economia che ci soffoca / Per quest’aria inquinata che respiriamo”, cantava prima di essere arrestato anche lui per qualche gior
Fonte e versione originale: El Salto
Traduzione per Comune-info: marco calabria