La fantasia apolitica di Pelè

Łukasz Muniowski 7 Gennaio 2023
Diventato famoso all’apice della dittatura militare brasiliana, faceva in campo giocate imprevedibili ma, contemporaneamente, era molto attento a non dare mai fastidio ai potenti
Il 19 novembre 1969, Pelé senza battere ciglio segnò su calcio di rigore il millesimo gol della propria carriera, come da copione. In un’intervista televisiva piena d’emozione, dedicò i suoi piedi ai bambini del Brasile; in parlamento, un senatore si alzò per leggere una poesia in suo onore; i giornali locali, che nel resto del mondo avevano gli occhi puntati sull’allunaggio dell’Apollo 12, spostarono lo sguardo su Pelé. L’eccitazione che lo circondava sembrava trascendere la politica, ma era solo un’illusione. In realtà, Pelé aveva messo in atto attenti compromessi per riuscire ad avere successo in un Brasile governato per decenni da dittature militari di estrema destra, mantenendosi sempre nel difficile equilibrio tra l’avanzamento della propria carriera e il pericolo di mettersi contro i potenti.
Negli anni immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, in cui il Brasile combatté a fianco degli alleati, il paese aveva avviato un percorso di ricostruzione, interrompendo i contatti con le nazioni fasciste europee e abbracciando una visione multiculturale della propria cultura, includendo esplicitamente le persone afro-brasiliane. Il calcio, lo sport più inclusivo del paese, era al centro di questo progetto. A partire dalla leadership del populista autoritario Getúlio Vargas, che nel 1948 supervisionò la costruzione dello Stadio Maracanã a Rio de Janeiro (a quei tempi il più grande del mondo), a fare da sfondo alla carriera illustre di Pelé e ali anni migliori del calcio brasiliano furono una serie di dittature militari e governi anticomunisti.
Come la maggior parte dei grandi atleti moderni, escludendo figure eccezionali come Muhammad Ali o Kareem Abdul-Jabbar, Pelé doveva muoversi con cautela intorno alla politica. La sua capacità di evitare di sposare posizioni divisive pur rimanendo un personaggio pubblico celebrato fu forse il prodotto della magia dello sport, che spesso riesce ad avvicinare la gente evocando un sentimento collettivo apolitico. Narrando la Coppa del Mondo del 1982, il romanziere di estrema destra Mario Vargas Llosa osservò che
Il calcio offre alle persone qualcosa che raramente riescono ad avere: l’opportunità di divertirsi, di entusiasmarsi, di infervorarsi, di farsi coinvolgere, di provare certe emozioni che la routine quotidiana non offre quasi mai… Una bella partita di calcio è intensa e coinvolgente… È effimera, non è trascendentale, è innocua. Un’esperienza il cui effetto scompare insieme alla sua causa. Lo sport… è amore per la forma, uno spettacolo che non supera la fisicità, i sensi, l’emozione immediata, che, a differenza per esempio di un libro o di uno spettacolo teatrale, a malapena lascia traccia nella memoria e non arricchisce né impoverisce la conoscenza. Ed è lì la sua attrattiva; nel fatto che è emozionante e vuoto.
Quella di Llosa era, ovviamente, una fantasia conservatrice di ciò che il calcio dovrebbe essere. L’accesso allo svago e l’uso degli spazi pubblici sono due temi intrinsecamente politici. Ciononostante, è innegabile che la fantasia di Llosa non è molto lontana dalla realtà dello sport nel nostro mondo politicamente frammentato.
La scena
A nove anni, Pelé seguì alla radio la più grande sconfitta nella storia del calcio brasiliano, quando il Brasile perse contro l’Uruguay due a uno nella partita decisiva del girone finale. Ospitare la prima Coppa del Mondo dalla Seconda Guerra Mondiale era l’occasione per il Brasile di conquistare il trofeo raffigurante la dea Nike e sulla scia del trionfo solidificare il proprio status di «nazione del futuro». Il Brasile aveva approfittato del fatto che nessun paese europeo era in grado di organizzare il torneo ed era perfino riuscito a convincere la Fifa a dargli un anno in più per prepararsi al meglio: così il mondiale, programmato per il 1949, era stato spostato al 1950.
Fu per questo evento che venne edificato il Marcanã. La costruzione dello stadio, che aveva richiesto quasi due anni e impiegato la manodopera di undicimila lavoratori, mezzo milione di sacchi di cemento e dieci milioni di chili di ferro, aveva creato un’atmosfera frenetica a Rio nei mesi precedenti alla Coppa del Mondo. La scena era pronta per la vittoria della nazionale di casa. Per il modo in cui il torneo era organizzato a quei tempi, con l’Uruguay al Brasile sarebbe bastato un pareggio per vincere la Coppa del Mondo. La nazionale uruguaiana aveva basse aspettative. Il presidente dell’Associazione calcistica dell’Uruguay si era espresso in modo particolarmente pessimista, dichiarando pubblicamente che «l’importante è che questi [il Brasile] non facciano più di sei gol. Se ne segnano solo quattro la nostra missione è compiuta». Qualche secondo prima del calcio d’inizio, il sindaco di Rio aveva già dichiarato vincitrice la squadra nazionale.
Per i ventimila tifosi ammassati nello stadio per vedere la partita conclusiva, l’impatto della sconfitta fu terribile. Per due anni la nazionale non prese parte a partite internazionali e per quattro non giocò al Maracanã. La tenuta bianca con cui la squadra aveva giocato quella partita fu abbandonata e sostituita con le famose maglie giallo canarino. La colpa della sconfitta fu addossata a tre giocatori afro-brasiliani: i difensori Bigode e Juvenal e il portiere Barbosa che si era fatto fare il gol decisivo dell’Uruguay.
Il Re
Il giovane Pelé entrò in un sistema di sviluppo calcistico più organizzato e integrato, reso possibile dallo sforzo nazionale per prevenire un’altra tragedia simile. Nella valutazione del talento calcistico, gli attributi fisici avevano lo stesso peso della mentalità, della capacità di gestire la pressione, soprattutto fuori dal campo. Nel 1958, la nazionale brasiliana avrebbe raccolto i frutti di questo processo con la sua prima vittoria della Coppa del Mondo.
Furono tre giocatori afro-brasiliani a essere decisivi per il trionfo di quella squadra: Didi (il miglior giocatore del torneo), Garrincha e Pelé. Sia Garrincha che Pelé, due geni del calcio, erano nati nella povertà ed erano diventati leggende dello sport, ma le loro vite presero due direzioni molto diverse. Garrincha beveva molto e non ebbe mai il fiuto per gli affari di Pelé, che fu uno dei primi calciatori brasiliani ad avere un agente. Mentre Pelé firmava redditizie sponsorizzazioni con la Pepsi, Garrincha trascorse gli anni dopo il ritiro giocando a calcio con i suoi amici di infanzia. Nonostante fosse un eroe, grazie alla comunità che l’aveva cresciuto Garrincha rimase sempre un uomo del popolo, mentre Pelé è diventato un’icona lontana, un idolo intoccabile.
Le conquiste calcistiche di Pelé sono troppo numerose per essere elencate, e il suo essere citato tra i migliori calciatori o addirittura il miglior calciatore al mondo di tutti i tempi è certamente meritato. Resta senza dubbio il miglior marcatore della storia del calcio con 1.281 gol, prevalentemente segnati tra il 1956 e il 1974, quando giocava per il Santos. Pelé ha vinto tre Coppe del Mondo (nel 1958, nel 1962, e nel 1970), e rimane l’unico giocatore nella storia della competizione ad aver raggiunto questo traguardo. Quando andava giocava con il Santos, veniva pagato quanto il resto della squadra messa insieme.
All’estero, Pelé contribuì alla promozione dell’immagine del Brasile negli anni oscuri della dittatura militare. Durante una tournée internazionale con il Santos, cominciò a circolare la storia che Pelé avesse in qualche modo fermato la guerra civile nigeriana. Secondo le voci, le forze nigeriane e del Biafra concordarono una tregua di quarantotto ore per poter garantire la sicurezza dei giocatori quando i campioni brasiliani dovevano affrontare una squadra locale. Questa storia – che riportò in auge il cliché sul potere unificante del gioco del calcio – contiene tutto tranne la verità: non ci sono prove che il cessate il fuoco abbia effettivamente avuto luogo e i racconti dell’episodio trovati nelle pubblicazioni mainstream occidentali spesso non convengono neanche sull’anno in cui dovrebbe essere avvenuto.
Tre mesi prima della Coppa del Mondo dell’anno successivo, la politica si abbatté nuovamente sulla squadra di calcio brasiliana. A seguito di una serie di proteste, il nuovo presidente di destra Emílio Garrastazu Médici ebbe uno scontro pubblico con l’allenatore, popolare ma comunista, della squadra nazionale: João Saldanha. Ufficialmente si trattava di una discussione dovuta al rifiuto dell’allenatore di schierare l’attaccante Dario – «Io non scelgo i ministri del presidente, lui non può scegliere i miei attaccanti», aveva detto Saldanha – ma presto la discussione era diventata politica. Dopo una serie di prestazioni deludenti, Médici fece pressione perché Saldanha fosse rimpiazzato dal nazionalista Mario Zagallo, che portò con sé una cerchia di personale militare per insegnare alla squadra brasiliana a gestire la fisicità delle competizioni europee.
La squadra brasiliana così ricostituita dominò il campionato del mondo e fu lautamente ricompensata dal regime militare di Médici. Secondo una testimonianza, «Ciascun membro della squadra ricevette una medaglia prestigiosa, soldi, macchine e diecimila azioni della compagnia elettrica statale Light». Potrebbe essere un’esagerazione dire che Pelé e la sua squadra salvarono la dittatura, ma certamente contribuirono a renderla popolare. I festeggiamenti nelle strade delle città brasiliane avrebbero potuto benissimo essere delle rivolte se la squadra avesse fallito l’obiettivo.
La pedina
Nel 1975, nonostante avesse ricevuto offerte dai migliori club del mondo, Pelé rinunciò al ritiro per giocare con il New York Cosmos nella North American Soccer League. Attirato da un contratto di quattro milioni di dollari e da Henry Kissinger, che sperava che la presenza dell’attaccante nel Cosmos avrebbe «contribuito a rafforzare i legami tra Stati uniti e Brasile», Pelé diede nuova vita a un club che allora aveva bisogno di offrire il Burger King ai tifosi per riempire gli spalti. L’arrivo del trentaquattrenne Pelè alimentò l’espansione iniziale della North American Soccer League, che in tre anni divenne un’associazione autonoma con ventiquattro squadre. Questa spinta però si rivelò temporanea: già nel 1982, il numero di squadre dell’associazione era sceso a quattordici.
A quel punto, però, Pelé aveva smesso di giocare già da cinque anni, e guardava il susseguirsi di innumerevoli «nuovi Pelé». Aveva scelto di non partecipare alla Coppa del Mondo del 1974, attirandosi per un breve periodo il rancore della dittatura; tuttavia era diventato un simbolo troppo importante perché lo potessero eliminare. Pelé era consapevole che il suo talento lo rendeva, nel bene e nel male, più forte della politica.
Più tardi avrebbe detto: «aprivo sempre la porta ai governanti che mi cercavano». Questa prassi gli è servita e ha alimentato la sua popolarità negli anni. Non aveva alcuna remora nel farsi fotografare insieme a generali autoritari, ma allo stesso modo non si fece problemi a chiedere pubblicamente elezioni libere nel 1984. A metà degli anni Novanta è stato Ministro dello Sport per il governo di centrodestra e ha usato la sua posizione per costringere le squadre di calcio a essere più trasparenti nelle proprie finanze e a rivedere i contratti a favore dei giocatori. Accanto a queste meritevoli riforme, Pelé ha anche seguito l’introduzione di una legge che permise a società straniere di investire nel calcio brasiliano.
È difficile definire con chiarezza l’eredità di Pelé. Senza dubbio è stato un grande atleta, ma non ha mostrato alcuna relazione lineare tra il proprio talento in campo e le sue posizioni politiche. La sua origine working class non è servita a farlo posizionare in modo coerente a sinistra. Pelé è stato, in questo senso, la prova che le forze politiche intorno a noi sono in ultima istanza ciò che influenza la nostra visione del mondo.
*Łukasz Muniowski è assistant professor presso l’Università di Szczecin. Il suo ultimo libro, Turnpike Team: A History of the New Jersey Nets, 1977–2012, è stato pubblicato da McFarland. Questo articolo è uscito su JacobinMag, la traduzione è di Valentina Menicacci.
Fonte: https://jacobinitalia.it